E non sto scherzando.
Dopo il compito in classe, la prova scritta, l'elaborato e altri simili ostacoli arriva sempre inesorabile il momento della correzione. Valutare il tuo alunno, il discente, lo scolaro, l'alunno, il discepolo non è mai incombenza leggera o estremamente piacevole, perché entrano in gioco mille e un fattori.
In special modo la correzione per gli esami di Stato avviene in modo collegiale, unito, affiatato: tutti concentrati ad una prima lettura del testo, si passa poi ad una seconda, penna in mano e griglia di valutazione in alto.
Quali descrittori, quante voci?
E poi si saltano gli indugi e si rompe il silenzio: confronto, dubbio, frase significativa, passo commovente o pruriginoso, momento di esaltazione per una consecutio temporum azzeccata o di disperazione per una comprensione andata male: esaltazione dell'intelligenza o mordersi le mani.
E niente, poi si arriva all'esame di coscienza sulla spiegazione data, il nocciolo della questione emerso, quel particolare tipo di testo affrontato o sottovalutato.
Perché in fondo correggere un compito significa anche riflettere sul proprio lavoro, arrovellarsi su quanto spiegato, detto, letto.
E qui il grande interrogativo: il risultato finale indica anche l'efficacia dell'insegnamento, la "bravura" del docente, le capacità di chi si pone in cattedra?
Non credo si possa dare una risposta certa, matematica, approssimata per eccesso o difetto, se consideriamo agitazione, stanchezza, ansia, esuberanza, sorte, congiunzione astrale e allineamento del sole...
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